Vegetazioni improbabili

Project Description

Tutto può essere improbabile, nulla impossibile.

C’è sempre un albero nella vita di Pierluigi Pavesi. E’ il suo totem il suo simbolo. Dai primi dipinti figurativi fino alle ultime astrazioni è protagonista. Il suo profilo si staglia alla luce che prevale sulla nebbia sopra la collina, in un’atmosfera lirica e romantica. E’ ancora esile sagoma nel lato del quadro, anche se fondamentale a creare la suggestione di quest’intermezzo tra notte e giorno. Ed è proprio l’altalenare tra oscurità e chiarore, tra mente e cuore, tra passato e futuro, tra terra e cielo, tra geometria e fantasia, tra realtà e sogno, tra vita e morte, insomma in una continua danza di opposti la caratteristica della sua pittura. Del resto, cosa c’è di più intermedio, paradossale nella sua immobilità eppure in perpetuo moto interno e sotterraneo, di un albero?
Pavesi ne riproduce i cambiamenti stagionali, ne moltiplica e rivela le radici, cerca di razionalizzarlo, di chiuderlo in geometrie, di contenere nell’ordine il mistero e il dolore, ma esso finisce sempre per sfuggire alle linee troppo rette e artificiali per tornare al viluppo, all’intrico, all’imprevedibile che infrange la stasi e riattiva le emozioni.
Quelle vegetazioni racchiuse in sentiero rivelano poi la linfa nascosta della vita. Pavesi insiste con la squadra, col controllo della visione, ma proprio quando sembra averlo trovato, ecco che fioriscono forme improbabili, protuberanze fantastiche, aliene, sbilanciate e oscillanti come in Calder, giocose come in Mirò. Oppure l’immagine si scompone in riquadri ondulati. Anche quando la pianta è spoglia, quasi rinsecchita, a trasmettere rassegnazione e privazione, sotto è un fermento di pulsazioni cromatiche, un germogliare di speranze. La sottile vena rossa irrompe silenziosa nel rigore geometrico, prospettico, s’insinua nella delibera grigia del destino e fluisce nel fusto, fino ai rami vuoti. L’albero è dunque sempre quello della vita, dove la linea non si spezza, non si stacca dal foglio e non c’è soluzione di continuità. Pavesi è ingegnere minerario e conosce i segreti della terra, come le sue risorse, le circonvoluzioni dei magmi e le sovrapposizioni lineari delle rocce. E poi la natura dei vegetali che è chaos rigenerativo, germinazioni imprevedibili.
C’è una continua lotta tra razionalità e passione nelle sue opere; da una parte linee che organizzano, fermano gli spazi pur in continue rivoluzioni e dall’altra colori che schiudono ricordi, sogni. Dall’albero passa poi al sottobosco, a osservare il mondo nel piccolo, nel microcosmo invisibile, oppure lo riproduce dall’alto, quasi evocando certe vedute geografiche medievali o gli sfondi di Paolo Uccello, come ne “La contrada bucolica”. I suoi sono sempre punti di vista insoliti, per catturare, anzi inseguire con il pennello e il cuore i profili sinuosi dell’esistenza, il suo irrefrenabile volteggio, l’eterno mutare. Le astrazioni, gli arabesques riproducono le microscopiche ripartizioni delle foglie, le trame impercettibili e imperscrutabili delle cose, le onde silenti dell’anima.
In alcune ultime opere libera il colore e elimina le linee, ma quello che dovrebbe gocciare, scendere, perdersi, in realtà pare risalire: la pioggia, i licheni.
Indubbiamente si sente l’influenza del maestro e vicino di casa Gastone Biggi, specialmente nei lavori più astratti e sembrerebbe di trovarvi anche qualcosa di Carlo Mattioli. Ma non ci si lasci ingannare dalla presenza insistente dell’albero. Questo è davvero tutto suo di Pavesi e in lui viene prima di qualsiasi citazione. D’altronde il suo concetto di natura irruente e la sua osservazione attenta si direbbe piuttosto morlottiana, anche se appiattita e liberata dalla materia pastosa del pittore lombardo. La visione è poi ad un tempo intima, personale e insieme universale, combinandosi in armonie cromatiche e grafiche che, pur evolute in astrazione, riconducono alle soluzioni à plat di Matisse, alla filosofia di una “danse” totale. Si direbbe che Pavesi davvero esprima l’equilibrio eracliteo: tutto corre, tutto cambia, gli opposti trovano conciliazione. L’esistenza è fatta di quest’alternanza e si sopravvive solo accettandola, abbandonandosi al flusso, alla danza delle cose.
Alla fine l’artista accondiscende alla ribellione universale, alla costruzione fantastica, all’improbabilità che è però il vero di ogni possibilità. Così facendo, egli si concede liberamente alla magia creatrice. Perché quello che insegnano l’albero, la natura, la vita è che tutto può essere improbabile, ma nulla è impossibile.

Manuela Bartolotti